Antonio Pizzardi
GIGGINO
Due G e una Polio
by
Antonio Pizzardi
Dopo un anno vissuto in famiglia, un anno di cattive
vicissitudini, mia madre esasperata e senza più alternative mi
consegnò all’orfanotrofio Vittorio Emanuele II.
Le porte dell’istituto si chiusero alle mie spalle.
Passarono sette anni prima che si aprissero di nuovo e per
sempre. Ma questa non è la mia storia, è quella di Giggino.
Là, nel cortile del collegio lo vidi per la prima volta. Non mi
fece molta impressione, uno spastico come tanti altri, cosi li
chiamavamo allora quelli come lui.
Ne avevo visti già altri, anche peggio conciati, ma mai così da
vicino.
Se ne stava li, in cortile, seduto su un masso, mentre io, diviso
tra paura e curiosità, precauzionalmente, me ne stavo aggrappato
alla gonna di mia madre che avvicinandosi a quel giovanotto con
voce bassa e dolce iniziava a conversare.
Le parole che udivo erano contorte, strascicate, incomprensibili
parole che non riuscivo a decifrare, un enigma per me ma non
per mia madre che poco dopo chinandosi alla mia altezza, come
quando soleva dirmi qualcosa da capire molto bene, con gli
occhi lucidi sussurra – Questo ragazzo è un’anima leggera, un
angelo in terra, non si fermerà a lungo tra noi.
Cerca di rispettarlo e di volergli bene. - Capito? -
Il tutto fissandomi dritto negli occhi.
Mia madre non era credente, aveva i suoi angeli,
entità superiori, esseri eterei, di puro spirito, e unitasi a loro era
riuscita ad affrancarsi da quel concetto indefinito di Dio.
Non riuscendo a collocarlo in nessun posto si sosteneva con la
Madonna, un matriarcato semplice ed essenziale che, unito agli
angeli, costituiva la colonna portante della sua spiritualità.
Per lei gli angeli potevano anche essere presenti sulla terra,
come anime transitive, e questo era un caso palese di un essere
che presto, secondo lei, si sarebbe trasformato in angelo.
Accennai con un cenno del capo anche se passarono anni
prima che capissi che cosa avessi dovuto capire ma sopratutto
come metterlo in pratica.
La poliomielite nell’Italia degli anni sessanta e sopratutto al
meridione era una piaga ancora aperta, ne colpiva tanti, chi più
che meno, e Giggino, affetto sia dalla poliomielite che da una
serie di complicazioni di certo non si poteva dire che avesse avuto
fortuna, insomma tra i più e i meno colpiti Giggino apparteneva
sicuramente ai più.
Inclinando vistosamente il busto ora da una parte ora
dall’altra, deambulava scoordinatamente, strascicando i piedi
rovinava le scarpe sempre e solo da un lato, e questo era il suo
andare.
Biascicava ogni parola sputando continuamente dei rantoli di
saliva dalla bocca, si esprimeva a fatica, e questo era il suo
parlare, per capire cosa dicesse bisognava ascoltare molto
attentamente, come si dice, farci l’orecchio ma alla fine chi voleva
capire capiva.
Aveva ventiquattro anni e viveva in orfanotrofio praticamente
da quando era nato, legalmente non avrebbe potuto più restare in
quanto aveva superato la maggiore età stabilita ai ventuno anni.
Giunto il giorno della dimissione nessuno, tra i pochi e
indisponibili parenti, accettò di accollarsi il fardello nome Giggino;
il povero non aveva un posto dove andare, senza risorse, senza
speranze.
Un caso umano di disagio estremo che si prestava facilmente
alle eccezioni che per fortuna sua ci furono, gli permisero di
restare nel collegio in qualità di aiutante continuando ad
occuparsi di quello che aveva fatto finora: la portineria e
l’infermeria.
All’interno dell’Orfanotrofio Vittorio Emanuele vigeva la regola
che ognuno dovesse fare la sua parte, portare il proprio apporto
lavorativo e anche Giggino nonostante le sue particolarità non ne
era esentato.
Il suo ruolo era stare in portineria, alla ricezione, aprire e
chiudere le porte, annunciare o accompagnare i rari visitatori,
evitare le uscite non autorizzate, un po' portinaio un po'
secondino – ironia del caso addossato all’edificio dell’orfanotrofio
era il carcere – Colle Triglio
Infine si occupava dell’infermeria, che era anche il posto in cui
alloggiava, tenerla pulita, prestare primo soccorso, disinfettare
ferite, e somministrare alcuni dei rarissimi farmaci gelosamente
custoditi sotto chiave in un armadietto di metallo.
Era l’infermiere e anche se nessuno lo riteneva tale lui riusciva
bene nel suo compito, chiaramente concedergli l’appellativo di
infermiere sarebbe stato come concedergli collocazione e
funzione sociale cosa che la morale dell’epoca escludeva a priori.
I soggetti “Giggini” erano considerati incapaci di svolgere
compiti funzionali e nonostante le evidenze dimostrassero il
contrario l’esclusione era garantita.
Negli anni sessanta le parole d’ordine circolanti in relazione ai
“Giggini” non erano inclusione, accettazione, integrazione ma
distanza, allontanamento, confinamento, come dice il detto
popolare - Occhio non vede cuore non duole -
La maggioranza della popolazione, sopratutto tra i poveri non
sapeva come questo tipo di malattie potessero trasmettersi,
contatto diretto? indiretto?
L’ignoranza e la paura regnavano sovrane e anche questo è
risaputo, dove c’è paura il panico è sovrano, chi è diverso va
allontanato e Giggino fù allontanato, messo da parte, escluso fin
dalla nascita.
Relegato in una sorta di gabbia da dove lui stesso, anche in
età più avanzata, faticava o non voleva più uscire.
Il mondo esterno gli faceva paura, ancora di più.
Seppur non frequentemente ma purtoppo costantemente era
afflitto da crisi nervose e attacchi che gli causavano tremori
incontrollabili e gli pregiudicavano completamente il controllo
motorio, quando questo accadeva e poteva succedere per tutta
una serie di motivi ma anche apparentemente senza, Giggino
cadeva in uno stato di completo abbandono fisico e psichico :
senza più coordinazione non riusciva ad articolare parola, non
riusciva a camminare, si mordeva le mani e tremava come una
foglia al vento.
Epilessia.
A volte volontariamente a volte involontariamente ma sempre
sconsideratamente alcuni dei ragazzi internati, con i loro curiosi e
perversi giochi in odore di nuovo si accanivano su di lui.
Ingiurandolo e denigrandolo senza vergogna riuscivano a
scatenare quelle crisi pazzesche, momenti un cui Giggino
precipitava nella paura più meschina, per poi, incapace di
difendersi dagli altri ma anche da se stesso, scaricava la sua
rabbia, la sua frustrazione, la sua aggressività contro se stesso,
ferendosi, umiliandosi, rotolandosi sul pavimento, nella polvere,
nel fango, dovunque gli attacchi avvenissero.
Uno spettacolo straziante al punto che, al fine di impedire
queste indecenze gli fu permesso di avere un suo bagno
personale cosi da evitare che ci fossero incontri con gli altri
internati. Gli diedero il permesso di usare il bagno dell’infermeria
e fu cosi che Giggino ebbe le chiavi del luogo che col tempo finì
col diventare la sua dimora-rifugio-prigione personale.
In quanto a questo tipo di episodi apro una parentesi: I servizi
igienici erano le cosidette latrine turche e Giggini non era un
campione di precisione, la prerogativa di centrare il cerchio, date
le sue limitazioni fisiche gli era praticamente preclusa, una
manovra alquanto complicata e difficoltosa accovacciarsi sulle
ginocchia per espletare i propri bisogni, per lui una vera impresa.
La sua era una ricerca del bersaglio, ricerca che spesso andava
sconfitta e di cui, un po' dappertutto, ai bordi, ai lati e a volte
anche sui muri rimanevano le chiazze maleodoranti e persistenti
che scatenavano l’ira e la cattiveria, dei ragazzi, sopratutto di
quelli addetti al turno di pulizia che quel giorno lo colsero in
flagrante diarrea.
La dieta a cui eravamo sottopost non era delle più leggere e i
legumi, noti produttori di gas e stimolatori dell’intestino erano una
regolarità.
La perversione e il cinismo quel giorno raggiunse il suo apice,
agli insulti e alle provocazioni reagì come al solito buttandosi a
terra, sulla latrina, rotolando sui suoi stessi escrementi mentre si
mordeva le mani e sbavava schiuma bianca dalla bocca come un
mastino napoletano.
Una crisi terribile. I responsabili, anzi tutti i presenti vennero
puniti, anche io, nonostante non avessi preso parte al dileggio,
non avevo neanche fatto niente per evitarla.
Cinquanta colpi di verga sulle mani e obbligo di pulizia delle
latrine per una settimana di fila.
Punizione assolutamente meritata.
Giggino sapeva leggere e scrivere e bisogna dire che non era
poco.
Non essendo stato a scuola, in quanto portatore di diversi
disturbi fisici era considerato un incapace anche mentalmente,
una chiara bugia ma che come conseguenza aveva portato al suo
allontanamento da qualsiasi forma di istruzione.
Le autorità nazionali, le istituzioni preposte, la direzione del
collegio e gli istitutori tutti non si sforzavano minimamente di
capire il diverso, di cercare di trovare nuovi metodi di
apprendimento e di inclusione finendo con il mettere da parte
questi soggeti e cosi dedicarsi solo ai cosidetti normali.
Giggino venne lasciato semplicemente fuori, dalla scuola, dalla
vita stessa.
Ma nessuno aveva fatto i conti con la di lui testardaggine,
tenne testa al sopruso imparando a leggere e a scrivere
semplicemente guardando e copiando tutto quello che gli
capitava sotto gli occhi, da solo, con l’aiuto di una radiolina e le
poche nozioni che gli arrivavano per vie terze era riuscito a
connettersi con le bellezze del mondo esterno pur rimanendo
confinato nello spazio di un edificio gretto e meschino.
Ormai erano passati anni dall’episodio del bagno e Giggino
viveva nell’infermeria, li aveva il suo lettuccio, il suo armadietto
privato dove custodiva gelosamente i suoi pochi possedimenti, tra
cui una raccolta di liriche di canzoni della musica leggera italiana
del tempo, ritagli da il – Sorrisi e canzoni – una rivista che
pubblicava i testi delle canzoni in voga, scrupolosamente incollate
e datate come in una sorta di album; anni dopo essere diventati
amici mi permise di toccare quelle cartelle, di pesarle fisicamente
e posso dire che erano veramente tante.
Nei diversi anni trascorsi in collegio io avevo passato un anno
apprendendo a leggere e suonare la musica, era una passione che
ci coinvolgeva entrambi e la domenica, giorno in cui veniva
trasmessa la Hit parade, un programma radiofonico a cura di Lelio
Luttazzi ci si trovava nell’infermeria per ascoltare insieme i dieci
brani della classifica vigente.
Era un momento in cui si cantava tutti insieme.
Le orecchie incollate alla radiolina.
Gli occhi sui testi.
Una esperienza unica, quasi mistica.
Il cantare insieme era una cosa divertentissima, ascoltare le
canzoni di Lucio Battisti o della Mina cantate da Giggino o meglio
interpretate da lui era bellissimo: non ne beccava una, dico, ne
una parola ne una nota, non ne diceva una giusta, le storceva
tutte, trasformandole, modificandole, cosi che le parole
assumevano un significato diverso, altro, spesso senza senso.
Nascevano cosi parole e significati nuovi, parole stimolanti e
curiose che aprivano a interpretazioni fantasiose, un’esperienza
da morire dalle risate – da lui ho imparato non solo a cantare ma
sopratutto a leggere e capire, quando possibile, quanta poesie era
contenuta in quelle musichette allegre che ci rendevano la vita un
po' più sopportabile.
Ancora adesso il solo ricordare quelle ore passate a cantare
insieme mi mette di buon umore mi fa ridere e mi commuove.
Nel collegio la metodologia pedagogica applicata era il classico
metodo – mazze e panelli fanno i figli belli – metodo che
costringeva noi tutti ad apprendere cose di cui non capivamo ne
l’utilità ne l’applicazione.
Bisognava imparare tutto a memoria e ripeterlo quando e dove
ci venisse richiesto.
Nessuno di noi aveva la pretesa di capire cosa decantassimo in
quegli interminabili e incomprensibili scritti,
Manzoni, Leopardi, Foscolo, immediatamente dimenticati non
appena si lasciava l’aula scolastica ma pronti a essere ritirati fuori
a comando, sperando che la memoria non tradisse.
Quando questo non succedeva, quando la memoria ci tradiva.
seguivano le punizioni corporali, sempre all’ordine del giorno,
dove la perversione superava la vergogna, dove ci imponevano di
procurarci da soli gli strumenti con cui essere successivamente
puniti.
Perversi.
Ancora adesso mi sale la rabbia e lo sdegno al ricordo delle
botte prese, alle punizioni ingiuste e fuori misura, alle lacrime
represse pena l’aumento progressivo della pena che a volte si
accumulava da un giorno all’altro, senza pietà.
Per sua fortuna Giggino era esentato da queste partecipazioni,
non c’era nessuno che si occupasse della sua formazione, non
doveva apprendere niente e non era richiesto che apprendesse, in
questo senso era libero.
Lui poteva uscire ma non lo faceva mai, non sapeva dove
andare, se ne stava rinchiuso in una prigione volontaria dove le
passioni faticavano a raggiungere un cervello ombrato e
misterioso, che forse, non chiedeva altro che restare la,
aspettando chissà cosa, forse solo vivere, continuare, aspettando
una pace, una libertà, forse il nulla, forse la morte liberatoria.
Passano molti anni e quando successe questa storia che vado a
raccontare io ne avevo trentacinque, Giggino sui cinquanta.
Non lo vedevo da molti anni ma era rimasto nel mio cuore da
quando mia madre mi aveva detto che era un angelo, un’anima
dell’universo intendendo che non appartenesse a questo mondo e
invitandomi a trattarlo bene.
Ci incontrammo per puro caso, vicino casa mia e scoprimmo di
essere vicini di casa, cosi lo invitai a pranzo per la domenica
successiva, acconsenti e ci demmo appuntamento.
Sono passati quindici anni da allora ma ricordo ancora tutto con
chiarezza, arrivò con il suo claudicare alle dodici in punto, era di
Aprile e faceva freddo, insieme a Peppino un mio amico, lo
stavamo aspettando.
Avevo messo su uno stufato di manzo con patate e peperoni,
una leccornia che cuoceva a fuoco lento già da due ore, il solo
odore metteva l’acquolina in bocca.
Il mio appartamento era al secondo piano di un palazzo antico,
scale in circolo con i gradini più alti dello standard attuale, con
archi e giri strani, molto bello anche se all’esterno piuttosto
malridotto.
Come già accennato Giggino non camminava bene e con il
passare degli anni era decisamente peggiorato, quasi non piegava
più le ginocchia e quando mise piede nel portone di casa alla sola
vista delle scale disse :– no, no, non se ne fa niente, io ritorno a
casa mia.
La delusione si dipinse sul mio viso e quello di Peppino, ma
prontamente cercammo di risolvere il problema, inventando una
soluzione che a nostro avviso pareva ingegnosa, avremmo fatto
sedere Giggino su una sedia e noi due lo avremmo sollevato e
trasportato di peso. Ci sembrava un’idea geniale, ma Giggino non
era dello stesso avviso, rifiutava di sedersi, la paura lo bloccava
ma infine finimmo con il convincerlo.
Si sedette e noi delicatamente lo sollevammo e pronti ad
affrontare la salita ci assestammo, facendo vacillare appena la
sedia, quella leggera ondulazione lo impaurì a tal punto che
scoppiò in una crisi, iniziò ad urlare come un forsennato,
mordendosi le mani, dicendo cose strane e incomprensibili ,
sbavando saliva e mordendosi la mani a sangue.
Lo posammo immediatamente riuscendo infine a calmarlo, ma
ormai il panico aveva preso il sopravvento, voleva assolutamente
andar via, io volevo una soluzione, avevo cucinato anche per lui,
insistetti e alla fine trovammo la soluzione o meglio la trovò lui.
Si sedette per terra e gradino dopo gradino, trascinandosi sulle
mani si arrampicò fino alla porta di casa, nel vederlo affrontare la
salita cosi faticosamente mi pentii della mia insistenza, della mia
ostinazione ma non dissi nulla, la frittata era ormai fatta.
Ottimo pranzo, ottimo vino, casareccio, caffè, dolce e infine la
chitarra, adesso si canta.
Giggino conosce l’alcool, gli piace l’ebrezza ma da tempo non
si rende conto dei suoi limiti, con due bicchieri di vino va fuori di
cibbia e quel giorno i bicchieri furono più di due, ci mettemmo a
cantare tutto il vecchio repertorio, come un grillo una cicale e un
asino messi insieme,
io e Peppino?
Le risate fino alle lacrime.
Un tuffo nel passato.
Verso le cinque disse che si era fatto tardi, andava a letto
molto presto e voleva ritornare a casa.
Scelse di scendere le scale usando lo stesso metodo utilizzato
nel salirle, giunti sulla strada lo accompagnai per un tratto poi ci
abbracciammo e ci salutammo.
Mentre si allontanava, prima di sparire dopo la curva della
strada si voltò e incrociandomi lo sguardo, mi sorrise, infine si
rimise in cammino, claudicante e vivo come solo lui sa essere,
sparendo al mio sguardo.
P.s.
Per fortuna la previsione di mia madre si è rivelata sbagliata.
Giggino ha avuto una lunga vita.
Chi se lo aspettava.
Lunga vita a Giggino.
Ed io sono felice di aver conosciuto un angelo.